"Spatula Regia Minerva"

SpadolaVicinieLontani è nato! Qui ci ritroveremo con parenti e amici che risiedono nel nostro amato Paesino ma anche con tutti gli emigranti che ci seguiranno da lontano.
Discorsi, news, foto e video, trasformiamo questo blog in una piazza virtuale all'insegna dell'amicizia.

mercoledì 10 febbraio 2016

JOCU DI LU CASU : GIOCO DEL FORMAGGIO

SPADOLA
In molti paesi del circondario delle Serre il martedì grasso è detto “marti di lazata”, che probabilmente deriva dal dialetto “lazari”, ossia conservare. 
Secondo quanto tramandato attraverso la memoria orale, infatti, le polpette non consumate durante la giornata “di lu marti di lazata” venivano conservate nello strutto per essere poi messe in tavola durante i pasti di sabato o domenica della Pasqua successiva. Proprio nell’ultimo giorno di Carnevale, inoltre, imperavano le farse, impersonate – in maniera apertamente canzonatoria – da diversi abitanti del luogo.
Oggi, la tradizione, quasi ovunque, è stata soppiantata da cortei in costume, con coriandoli, mascherine di ogni genere e carri allegorici. A Spadola, però, quasi come se fosse un mondo a se, il Carnevale, era ed è ancora oggi, soprattutto l’occasione per riprendere il tradizionale gioco del formaggio, del quale abbiamo già dettagliatamente scritto nei giorni scorsi.
Adesso, a cacio fermo, anzi già affettato e gustato, rivisitiamo il gioco – sentitissimo nella cittadina della Minerva – attraverso l’occhio e l’obiettivo del giovane fotografo serrese Biagio Tassone. Nella galleria fotografica di seguito, tutte le fasi più salienti del gioco: dalla conta per la divisione delle squadra, passando per la preparazione della corda attorno alla forma di formaggio, fino ai lanci e alla vittoria finale, festeggiata appunto consumando l’ambito premio.
notizia VIZZARRO.



Spadola, l’ultimo giorno del ‘gioco del formaggio’ chiude il Carnevale 2016 – LE FOTO




































































giovedì 28 gennaio 2016

giovedì 7 maggio 2015

FILM- DOCUMENTARIO SULLA VITA DI SAN BRUNO
(Gennaio 2016)
http://www.ilvizzarro.it/component/k2/5591-saint-bruno-pere-des-chartreux-in-uscita-il-film-documentario-sulla-vita-di-san-bruno.html


Saint Bruno, Père des Chartreux: in uscita il film-documentario sulla vita di San Bruno





SPADOLA NELLE TRADIZIONI
(settembre 2015)
La Strina delle Serre al suono della chitarra etnica battenti, bombata. di Domenicantonio Bruno Tassone Spadola, una comunità di antichissime origini – così come testimoniano gli scrittori di storia patria ed il titolo della sua parrocchia Sancta Maria Super Minervam (Santa Maria Sopra Minerva ) - e dalle antiche tradizioni religiose e socioculturali, nonché dalla linguistica e toponomastica con radici storiche profonde. Il nostro paese - secondo i patrii scrittori del regno di Napoli, come il grande Sacerdote Bruno Maria Tedeschi - esisteva fin dal tempo dei romani ed era situato sulla strada imperiale romana transappenninica Vibona-Scilacio-Annibali, a XXV miglia da Vibona (attuale Vibo Valentia) e a XXX miglia da Scilacio (attuale Squillace). Secondo l’autorevole giudizio del Prof. Baldacci – del Consiglio Nazionale delle Ricerche (C.N.R.) dell’Università La Sapienza di Roma - i motivi per cui i romani costruirono la strada anzidetta, erano diversi, come per esempio: 1) per un migliore sfruttamento delle risorse boschive per la costruzioni delle navi; 2) per un maggiore sfruttamento dei giacimenti di ferro e degli altri minerali come: galena, argento e oro che dai monti di Stilida (Stilo) - attuali giacimenti di Pazzano - e dai monti del medio Ancinale, venivano portati a dorso di mulo (via del ferro) nella zona di Spadola , dove poi veniva raccolto anche il carbone di faggio necessario per raggiungere le alte temperature nei forni di fusione, per la lavorazione dei suddetti minerali, (antichissima Ferriera di Spadola). 3) per facilitare lo sfruttamento dei giacimenti di granito, specie in località Volta del Margio di Spadola e Pietra del Caricatore, attuale Serra San Bruno, con cui furono fatte e scolpite le prime sette colonne del tempio Pantheon di Roma. Partendo dal presupposto socio-economico secondo cui le infrastrutture stradali portano influenze sociali, progresso e sviluppo, è evidente dunque, anche alla luce di quanto abbiamo appena detto, l’effetto esercitato dalla cultura romana sulla civiltà spadolese e delle serre. Tra gli influssi antropologici e religiosi degni di rilievo in questa sede, vi è quello esercitato dal culto della Dea Strenia. Nella antica Roma, la Strenia era la Dea dei doni, dell’abbondanza e del buon augurio il cui culto – grazie alla notevole influenza romana subìta - continua ancora oggi a sopravvivere - sia pur per finalità puramente folkloristiche - nei paesi e nelle città di tradizione classica, greco-latina o romana, di cui Spadola era ed è uno dei più antichi scrigni. Infatti, è proprio dall’adorazione della Dea Strenia che nelle zone ad influenza classica si formò la figura dello Strinaro impersonato da coloro che - in ossequio all’antico culto - esprimevano la loro fede attraverso particolari canti e balli. A Spadola, proprio nel cuore della zona delle Serre Calabre, nacque e visse uno dei più grandi Strinari della alta e media valle dell’Ancinale, Nicola Tassone (1907-1964). Così come nell’antica Roma vi è era Marco Porcio Catone, il cui nomignolo Porcio ne indicava il senso dell’abbondanza, anche a Spadola ogni famiglia possedeva, a quel tempo, un soprannome che richiamava preferibilmente un nome di un animale. Sulla base di questo principio storico dunque, Nicola Tassone veniva detto di “lu Cani” per indicare il totem di famiglia: la stirpe dalla quale discendeva ed il cui soprannome era indice di fedeltà. Nicola Tassone di “lu cani” – le cui origini derivano da una nobilissima famiglia di notai, medici, grandi monaci, chierici, alti prelati e sacerdoti (come don Vitantonio Papa, detto il latinista della Diocesi) - ereditò bene il culto dell’ abbondanza, dell’amicizia, del rispetto e, in modo particolare, l’amore per il ballo della Tarantella paesana, soprattutto per quella eseguita al suono della chitarra etnica, nota dalle nostre parti come chitarra“battenti pi canzuni ad aria”, in ossequio all’antica tradizione spadolese legata alla Dea Strenia. Nicola Tassone di lu Cani fu uno dei migliori interpreti del ballo della Tarantella calabrese accompagnata a suon di chitarra etnica battenti e bombata, a pari merito con i “campioni” della vicina Chiaravalle Centrale. Per sottolineare la sua bravura nel suono, nel canto e nel ballo della cultura popolare, alcuni paesani chiedevano a sua madre ironicamente ma con il dovuto rispetto: «Ma pi casu stu figghjio lu facisti cu cuorchi chiaravajuotu?». Ma Nicola Tassone di lu cani, non era il solo componente della famiglia a coltivare questa passione per il ballo della Tarantella, il canto e la musica etnica. Anche i fratelli Vitantonio, Bruno, Alberto e tutti i suoi nipoti furono ottimi interpreti di continua a pag. 3 Nicola Tassone Pubblichiamo con grande piacere il pregevole lavoro che il Dott. Tassone di Spadola ha voluto offrire ai nostri lettori. Le sue ricerche storico antropologiche scaturiscono da una passione e da una competenza non comune, segno del grande attaccamento alla sua terra ed alle sue genti. 3 questa tradizione popolare. Nei tempi passati, in paese, altri bravissimi ballerini erano: Bruno Squillacioti, detto Bruno di Rubino e Bruno Zaffino di la Ninna (grande suonatore di zampogna; quest’ultimo è uno strumento etnico tipico di Spadola che veniva costruito da secoli con l’antico tornio, con radica di Erica e Otre di capra). Nicola Tassone di lu Cani suonava una chitarra battenti, etnica e – per di più – “bombata” come una grande mandola, la quale era costruita con materiali pregiatissimi e con maestria insuperabile. Tuttavia si trattava di uno strumento musicale – di nobili radici - che non era originario della zona delle serre - dove peraltro si costruivano ottime chitarre battenti comuni, con fondo piatto - ma era costruito dai più grandi liutai della Calabria e, senza presumere, tra i più importanti della penisola italiana la cui famiglia ed i cui antenati vengono citati persino nel dizionario universale della liuteria, pubblicato a Bruxelles nel 1951. Era, infatti, una chitarra della famosa Liuteria della famiglia De Bonis, originaria di Bisignano (Cs) antichissima sede vescovile della Provincia di Cosenza. I liutai della famiglia De Bonis (meglio noti come fratelli De Bonis) costruivano ogni tipo di strumento a corda: dal violino alla mandola e dai mandolini alla chitarra classica ed etnica. Ognuno dei fratelli De Bonis era specialista nella costruzione di un tipo di strumento, pur essendo capace di costruire tutti gli altri strumenti di famiglia. Un particolare, degno di nota, è che la chitarra dello strinaru spadolese Nicola Tassone di lu cani - secondo alcune accreditate testimonianze popolari – montava corde di argento o quanto meno argentate e, certamente, capaci di emettere un suono squillante, puro in frequenza e con un timbro tonale che era proverbiale. A tal proposito sarebbe opportuno riportare un’antica leggenda, che si tramanda tra gli spadolesi, secondo la quale quando lu strinaru suonava la chitarra battenti nel cuore della notte, suscitava una tale emozione spirituale al punto da rappresentare un sorta di pericolo per le donne e per gli animali in stato gestazionale. Alcuni addirittura asserivano che - a causa delle acute frequenze emesse dalle corde argentate - poteva provocare l’aborto. Ed è proprio per queste ragioni – sempre secondo la vox populi – che le corde di argento caddero in disuso! Sulla fondatezza della leggenda non ci esprimiamo, ma che le corde d’argento esistessero veramente è testimoniato dallo stesso Maestro liutaio Nicola De Bonis il quale, un giorno, alla presenza della signora Nicoletta Oscar e dei signori Francesco Cavallaro, Giovanni Borelli, Bruno Tassone e Domenico Caruso, cantò una canzone nella quale veniva menzionata, appunto, la tipologia di queste corde: Catarra mia chi hai cordi d’argientu, ti priegu accumpagna lu mieu cantu mu affacia lu mieu Amuri nu momiemtu e d’uoru pue ti fazzu tuttu quantu. Negli anni ‘70, inoltre, la felice memoria di mio padre, Bruno Tassone, mi disse: «Ti consiglio vivamente di recarti a Bisignano per comprare una chitarra battente come quella di tuo zio Nicola e di mio fratello, di modo che non si perda la tradizione!». Più precisamente mi disse con tono marcato: «…nommu si perdanu li furmi!». Con questa espressione dialettale egli si riferiva alla forma particolare della chitarra etnica battente e bombata, tipicamente calabrese che trae le sue origini dalla forma bombata e curvilinea della Lira dei popoli della antica Magna Grecia, Locri, Crotone e Sibari. Il popolo dell’attuale Calabria (antica Brettia ed antichissima Italia) infatti, si alzava al mattino e intonava un canto al suono della Lira, strumento popolare semplicissimo, molto diffuso in tutte le colonie greche dell’Italia meridionale. Recandomi a Bisignano, vi trovai Vincenzo De Bonis (oggi vivente ed insuperabile liutaio dell’Italia intera) che mi indirizzò da suo fratello Nicola e mi raccomandò con quest’ultimo – più esperto nell’arte - perché mi costruisse il tipo di chitarra desiderato. Fu così che Nicola mi costruì, allora, due chitarre sul modello richiesto: una più ordinaria e per le feste comuni e l’altra di legname particolarmente pregiato perché me la tenessi da conto, essendo, quest’ultima, una chitarra da collezione e per concerti particolari di musica etnica. Alla domanda se questo secondo tipo di chitarra fosse di origine calabrese, lui mi rispose: «Di certo è che nella liuteria della nostra famiglia viene costruita da secoli. Secondo le testimonianze - pervenuteci da generazione in generazione - non può essere escluso che la radice prima di questa chitarra debba rinvenirsi proprio nella forma bombata della lira crotoniate, che nel grande matematico e musicista Pitagora di Crotone - e nella sua scuola Italica - ebbe il suo massimo cultore». Pitagora, nel movimento dei pianeti e degli astri, percepiva l’armonia dell’Universo che cercava di imitare e riprodurre proprio con le corde della lira e della cetra. E’ noto, infatti, dalle testimonianze delle letterature antiche, che il popolo Italico - corrispondente all’attuale popolo calabrese - cantava e ballava al suono della lira. E’ noto altresì che la Tarantella calabrese - ben diversa dalla Quadriglia napoletana e dal Salterello romano - deriva direttamente dal ballo greco in onore del dio Dionisio, dio dell’allegria e della feconcontinua a pag. 4 continua da pag. 2 Chitarra bombata 4 dità mediterranea che aveva la sua massima espressione nelle danze, nei ritmi e nelle musiche delle feste falliche. La nostra Tarantella quindi ha un significato prettamente religioso e purificatore; è una sorta di inno alla vita, alla sacralità dell’amore intesa come dono di Dio per la procreazione del genere umano. Ancora oggi - durante le vigilie delle feste dei Santi protettori dei nostri paesi - si balla la Tarantella al suono della chitarra battente, della zampogna e del piffero. La ragione storica di questa usanza va ricercata dunque nel significato vero sia della Tarantella che della chitarra battente bombata che venivano considerati, dal mondo antico, mezzi sacri per ottenere la fecondità spirituale ovvero la salute dell’anima e del corpo. Sull’importanza spirituale della chitarra battenti bombata per la cultura popolare del tempo, c’è ancora da aggiungere che a Spadola, mentre “li pecurari” utilizzavano quale strumento tipico la zampogna ed il piffero di radica di erica, i “vuoari”, noti anche come “massari” proprietari terrieri, possedevano la chitarra etnica battente. Tutto ciò non è un caso: secondo l’antica mitologia infatti, il toro – e quindi anche il bue e la vacca che venivano amorevolmente e religiosamente allevati dai “vuoari” - è simbolo della fertilità mediterranea nonché simbolo etnico della nostra stirpe italica. Persino la mucca che sta accanto a San Luca Evangelista è nota come espressione della fertilità spirituale. Non ci può essere fertilità senza gestazione materiale e spirituale, così come un tempo non ci poteva essere “vuoaru” senza “vuoi” e senza chitarra “battenti bombata”. Tra la donna incinta (e/o l’animale in stato gestazionale) e la chitarra bombata vi è infatti una sorta di relazione metaforica: l’aumento di volume del seno della donna nel periodo gestazionale e la forma rotondeggiante del ventre materno si traducono, nel folklore, proprio nella forma bombata della chitarra etnica, tipicamente impiegata o utilizzata nei canti e nei balli propizianti della gente desiderosa della fertilità spirituale e materiale, ed in particolar modo dai “vuoari” come auspicio per il futuro gestazionale e la salute degli animali da loro allevati, ritenuti un vero e proprio capitale economico, da cui dipendeva la sorte personale e della propria famiglia. L’assioma “vuoi - vuoaru – chitarra battenti bombata”, quindi, non è una pura casualità ma presenta valenze e fondamenta religiose, spirituali, filosofiche e folkloristiche ben precise. Tra i paesi legati all’antichissima tradizione del ballo della Tarantella a suon di chitarra battenti ricordiamo: la festa di San Cosimo e Damiano a Riace, quella di San Paolo di Galatina in Puglia, quella di San Rocco a Gioiosa Ionica e di Grotteria e – nelle nostre zone - anche Serra San Bruno nel corso della vigilia della festa della Madonna dell’Assunta e in quella di San Bruno nella festa di Pentecoste, nonchè a Spadola in occasione dei festeggiamenti del Santo Patrono San Nicola di Bari. Qui, in particolare, vi era il costume di ballare la tarantella innanzi alla statua del Patrono degli spadolesi e di portare in processione anche una mucca, da cui deriva dunque il tradizionale ballu di la vaccarejia di paglia, tutt’ora eseguito in occasione della festa. Ottime interpreti di questa tradizione erano le sorelle Catrina, Zarafina e Rosa Valente, note come “li baruni”. Nell’occasione veniva intonati alcuni canti di grande valenza storico-religiosa locale di cui riportiamo, qui di seguito, alcuni frammenti: Vespri sonandu ed Angeli cantandu, Madonna mia, di l’Assunta, cu vui m’arraccumandu; jiu non mi muovu di ‘ccà si la grazia non mi fà; facitimila Madonna mia, facitimila pì carità, ca Vui siti Virgini Spusa di la Santissima Trinità. Alla luce di tutto ciò, si comprende bene quindi perché Nicola Tassone di lu cani, certamente indirizzato dallo zio – l’arciprete di Spadola, don Vitantonio Papa - si recò proprio a Bisignano, nella prestigiosa liuteria De Bonis, per acquistare una chitarra battente bombata considerata - assieme alla Tarantella - “sacra” e la cui particolare forma richiama alla mente, per le ragioni sopra esposte, lo stato gestazionale della donna, simboleggiante la fertilità spirituale e fisica. Tutto ciò giustifica l’esistenza di due tipi di chitarra battente: la bombata e la piana, la sacra e la profana. E’ chiaro dunque anche il perché il De Bonis mi costruì due chitarre, con materiali e fatture diversi - una pregiata in noce per i rituali sacri o importanti (cd. chitarra catartica), l’altra, invece, in abete per le occasioni comuni e per gli stornelli profani – di cui ignoravo la differenza tant’è che all’inizio gli chiesi, ingenuamente, una sola chitarra. Nicola Tassone di lu cani invece, da buon seguace e conoscitore della vera tradizione spadolese greco-romana, acquistò solo la chitarra battente bombata, quella sacra, costruita secondo la maestria De Bonis. E cosi Nicola Tassone di lu cani - lu strinaru di Spadola per antonomasia - ogni anno, nella notte di Capodanno, con la sua chitarra etnica battenti bombata, dalle corde d’argento o argentate, accompagnato dagli amici più fedeli, portava la sua “strina” – cioè i balli e canti - per le vie dei paesi circonvicini e in particolare ai suoi amici di Brognaturo che lo aspettavano sul ponte di legno, posto sopra il fiume Ancinale che, da secoli, segna il confine territoriale tra le due comunità. continua da pag. 3 Il liutaio Vincenzo De Bonis continua a pag. 5 5 Anche questa usanza trova le sue origini nella cultura latina. Il termine Gennaio infatti deriva una radice antichissima, “Gi”, che esprime l’idea di inizio assoluto. A Roma, per esempio, il Dio Giano era il Dio di ogni inizio, mentre Giove era il padre di tutti gli altri dei. Ragion per cui, l’inizio dell’anno - primo gennaio - coincideva proprio con la festa del Dio Giano e della Dea Strenna, dea dell’abbondanza e del buon augurio. Non è un caso se a Spadola, ancora oggi, vi è l’usanza di fare nel giorno di Capodanno la distrina ai bambini, i quali con questo gesto ricevono dei soldi in un vurzju, in segno di augurio per un futuro prosperoso e di ricchezza. Secondo testimonianze dai noi registrate, le serenate degli strinari cominciavano dalla casa del signor Garcea Giuseppe detto Peppinu di Cucciuni – anch’egli “vuoaru” - e terminava, alla casa di Raffaele di Totò, quando suonava la campana che annunciava la processione del bambinello Gesù per le vie del paese, quasi a voler significare che la fertilità materiale si elevava a fertilità spirituale. Un ultimo aneddoto: man mano che la comitiva dello Strinaru girava per le vie del paese, la stessa aumentava sempre di più in quanto ad essa si univa, di volta in volta, anche il proprietario dell’abitazione che aveva appena ricevuto la strina, il sacco dei doni invece – frutto della distrina – diventava sempre più pesante, mentre il tutto veniva accompagnato da un canto intonato da “la Tazzonna”, un’anziana fedele di Brognaturo, che recitava: Alla chiesi di l’Annunziata, bella cosa chi ci stà; c’esta l’Angilu, ‘ndinocchunu, chi saluta la Virginità e dall’Ariu fu mandatu dalla Santissima Trinità. La Strina di Capudannu (Canto tipico spadolese in occasione del Capodanno) Finiu dicembri e mo trasiu jnnaru; lu iuarnu e curtu e viatu si fa scuru; E vena mu vi canta lu strinaru a Spatula, Zimbariu e Brignaturu. E vena rughi rughi e ‘ntra la via pi ‘llu bon’annu e la befania. Vinni a cantari a palazzu reali, di la Spagna portai li sonaturi; Porti e finiestri vitti alluminari e mi para ca caffora ‘nc’è lu suli. C’è la regina e c’è lu generali, paranu la Madonna e lu Signuri; Nci sta lu Patri etiernu naturali e di l’amici ‘nc’è lu mieggiu fiuri. Vinni pimmu vi puartu tantu beni quantu ndi vacia a Napoli e ‘ndi veni; Pi agurari a vui tanti bon’anni quantu a li sipali ‘ndàmpranu li panni. Salutu porti, finestra e li barcuni, alla matrona e allu sue patruni. * * * Canto tipico di Monte Poro Fatti li cazzi tua crapa di crita e di li fatti mie non ti impicciari ca si m’asssuma la faccia ti pistu e la crianza ti fazzu ‘mparari. Cuamu nu lepru mi farìa nu jazzu mu tiegnu l’occhia apierti e mu mi ‘mbizzu La genti cuomu a ttia lampàsciu a mazzu E pue li ‘mpurnu e vaiu mu l’attizzu. Apru la porta senza catinazzu ca si non ai crianza jio ti la ‘mbizzu. Ringrazio per la collaborazione il dott. Enzo Giuliano ed il maestro Francesco Cavallaro continua da pag. 5 E’ in corso di stampa la raccolta rilegata di tutti i numeri de La Barcunata pubblicati nei primi dieci anni di vita del Periodico (1995-2005). Gli interessati possono prenotarla presso l’edicola di Concettina Ceravolo, l’ex Salone 900 o la redazione.