FILM- DOCUMENTARIO SULLA VITA DI SAN BRUNO
(Gennaio 2016)
http://www.ilvizzarro.it/component/k2/5591-saint-bruno-pere-des-chartreux-in-uscita-il-film-documentario-sulla-vita-di-san-bruno.html
SPADOLA NELLE TRADIZIONI
(settembre 2015)
La Strina delle Serre al suono della chitarra etnica battenti, bombata.
di Domenicantonio Bruno Tassone
Spadola, una comunità di antichissime origini – così come
testimoniano gli scrittori di storia patria ed il titolo della sua
parrocchia Sancta Maria Super Minervam (Santa Maria Sopra
Minerva ) - e dalle antiche tradizioni religiose e socioculturali,
nonché dalla linguistica e toponomastica con radici
storiche profonde.
Il nostro paese - secondo i patrii scrittori
del regno di Napoli, come il grande Sacerdote
Bruno Maria Tedeschi - esisteva
fin dal tempo dei romani ed era situato
sulla strada imperiale romana transappenninica
Vibona-Scilacio-Annibali, a
XXV miglia da Vibona (attuale Vibo
Valentia) e a XXX miglia da Scilacio (attuale
Squillace).
Secondo l’autorevole giudizio del Prof.
Baldacci – del Consiglio Nazionale delle
Ricerche (C.N.R.) dell’Università La Sapienza
di Roma - i motivi per cui i romani
costruirono la strada anzidetta, erano
diversi, come per esempio:
1) per un migliore sfruttamento delle
risorse boschive per la costruzioni
delle navi;
2) per un maggiore sfruttamento dei
giacimenti di ferro e degli altri minerali
come: galena, argento e oro che
dai monti di Stilida (Stilo) - attuali
giacimenti di Pazzano - e dai monti
del medio Ancinale, venivano portati a dorso di mulo (via
del ferro) nella zona di Spadola , dove poi veniva raccolto
anche il carbone di faggio necessario per raggiungere le
alte temperature nei forni di fusione, per la lavorazione
dei suddetti minerali, (antichissima Ferriera di Spadola).
3) per facilitare lo sfruttamento dei giacimenti di granito,
specie in località Volta del Margio di Spadola e Pietra del
Caricatore, attuale Serra San Bruno, con cui furono fatte
e scolpite le prime sette colonne del tempio Pantheon di
Roma.
Partendo dal presupposto socio-economico secondo cui le infrastrutture
stradali portano influenze sociali, progresso e sviluppo,
è evidente dunque, anche alla luce di quanto abbiamo
appena detto, l’effetto esercitato dalla cultura romana sulla civiltà
spadolese e delle serre.
Tra gli influssi antropologici e religiosi degni di rilievo in questa
sede, vi è quello esercitato dal culto della Dea Strenia.
Nella antica Roma, la Strenia era la Dea dei doni, dell’abbondanza
e del buon augurio il cui culto – grazie alla notevole
influenza romana subìta - continua ancora oggi a sopravvivere
- sia pur per finalità puramente folkloristiche - nei paesi e
nelle città di tradizione classica, greco-latina o romana, di cui
Spadola era ed è uno dei più antichi scrigni.
Infatti, è proprio dall’adorazione della Dea Strenia che nelle
zone ad influenza classica si formò la figura dello Strinaro
impersonato da coloro che - in ossequio
all’antico culto - esprimevano la loro
fede attraverso particolari canti e balli.
A Spadola, proprio nel cuore della zona
delle Serre Calabre, nacque e visse uno
dei più grandi Strinari della alta e media
valle dell’Ancinale, Nicola Tassone
(1907-1964). Così come nell’antica
Roma vi è era Marco Porcio Catone, il
cui nomignolo Porcio ne indicava il senso
dell’abbondanza, anche a Spadola
ogni famiglia possedeva, a quel tempo,
un soprannome che richiamava preferibilmente
un nome di un animale. Sulla
base di questo principio storico dunque,
Nicola Tassone veniva detto di “lu
Cani” per indicare il totem di famiglia:
la stirpe dalla quale discendeva ed il cui
soprannome era indice di fedeltà.
Nicola Tassone di “lu cani” – le cui origini
derivano da una nobilissima famiglia
di notai, medici, grandi monaci, chierici,
alti prelati e sacerdoti (come don Vitantonio
Papa, detto il latinista della Diocesi)
- ereditò bene il culto dell’ abbondanza, dell’amicizia, del
rispetto e, in modo particolare, l’amore per il ballo della Tarantella
paesana, soprattutto per quella eseguita al suono della
chitarra etnica, nota dalle nostre parti come chitarra“battenti
pi canzuni ad aria”, in ossequio all’antica tradizione spadolese
legata alla Dea Strenia.
Nicola Tassone di lu Cani fu uno dei migliori interpreti del ballo
della Tarantella calabrese accompagnata a suon di chitarra
etnica battenti e bombata, a pari merito con i “campioni” della
vicina Chiaravalle Centrale.
Per sottolineare la sua bravura nel suono, nel canto e nel ballo
della cultura popolare, alcuni paesani chiedevano a sua madre
ironicamente ma con il dovuto rispetto: «Ma pi casu stu figghjio
lu facisti cu cuorchi chiaravajuotu?».
Ma Nicola Tassone di lu cani, non era il solo componente della
famiglia a coltivare questa passione per il ballo della Tarantella,
il canto e la musica etnica. Anche i fratelli Vitantonio,
Bruno, Alberto e tutti i suoi nipoti furono ottimi interpreti di
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Nicola Tassone
Pubblichiamo con grande piacere il pregevole lavoro che il Dott. Tassone di Spadola ha voluto offrire ai
nostri lettori. Le sue ricerche storico antropologiche scaturiscono da una passione e da una competenza
non comune, segno del grande attaccamento alla sua terra ed alle sue genti.
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questa tradizione popolare.
Nei tempi passati, in paese, altri bravissimi ballerini erano:
Bruno Squillacioti, detto Bruno di Rubino e Bruno Zaffino di
la Ninna (grande suonatore di zampogna; quest’ultimo è uno
strumento etnico tipico di Spadola che veniva costruito da secoli
con l’antico tornio, con radica di Erica e Otre di capra).
Nicola Tassone di lu Cani suonava una chitarra battenti, etnica
e – per di più – “bombata” come una grande mandola, la
quale era costruita con materiali pregiatissimi e con maestria
insuperabile.
Tuttavia si trattava di uno strumento musicale
– di nobili radici - che non era originario
della zona delle serre - dove peraltro
si costruivano ottime chitarre battenti comuni,
con fondo piatto - ma era costruito
dai più grandi liutai della Calabria e, senza
presumere, tra i più importanti della penisola
italiana la cui famiglia ed i cui antenati
vengono citati persino nel dizionario
universale della liuteria, pubblicato a Bruxelles
nel 1951.
Era, infatti, una chitarra della famosa Liuteria
della famiglia De Bonis, originaria di
Bisignano (Cs) antichissima sede vescovile
della Provincia di Cosenza.
I liutai della famiglia De Bonis (meglio
noti come fratelli De Bonis) costruivano
ogni tipo di strumento a corda: dal violino
alla mandola e dai mandolini alla chitarra
classica ed etnica. Ognuno dei fratelli De
Bonis era specialista nella costruzione di
un tipo di strumento, pur essendo capace
di costruire tutti gli altri strumenti di famiglia.
Un particolare, degno di nota, è che la chitarra dello strinaru
spadolese Nicola Tassone di lu cani - secondo alcune accreditate
testimonianze popolari – montava corde di argento o quanto
meno argentate e, certamente, capaci di emettere un suono
squillante, puro in frequenza e con un timbro tonale che era
proverbiale.
A tal proposito sarebbe opportuno riportare un’antica leggenda,
che si tramanda tra gli spadolesi, secondo la quale quando
lu strinaru suonava la chitarra battenti nel cuore della notte,
suscitava una tale emozione spirituale al punto da rappresentare
un sorta di pericolo per le donne e per gli animali in stato
gestazionale.
Alcuni addirittura asserivano che - a causa delle acute frequenze
emesse dalle corde argentate - poteva provocare
l’aborto.
Ed è proprio per queste ragioni – sempre secondo la vox populi
– che le corde di argento caddero in disuso!
Sulla fondatezza della leggenda non ci esprimiamo, ma che
le corde d’argento esistessero veramente è testimoniato dallo
stesso Maestro liutaio Nicola De Bonis il quale, un giorno, alla
presenza della signora Nicoletta Oscar e dei signori Francesco
Cavallaro, Giovanni Borelli, Bruno Tassone e Domenico Caruso,
cantò una canzone nella quale veniva menzionata, appunto,
la tipologia di queste corde:
Catarra mia chi hai cordi d’argientu,
ti priegu accumpagna lu mieu cantu
mu affacia lu mieu Amuri nu momiemtu
e d’uoru pue ti fazzu tuttu quantu.
Negli anni ‘70, inoltre, la felice memoria di mio padre, Bruno
Tassone, mi disse: «Ti consiglio vivamente di recarti a Bisignano
per comprare una chitarra battente
come quella di tuo zio Nicola e di mio
fratello, di modo che non si perda la
tradizione!».
Più precisamente mi disse con tono marcato:
«…nommu si perdanu li furmi!».
Con questa espressione dialettale egli si
riferiva alla forma particolare della chitarra
etnica battente e bombata, tipicamente
calabrese che trae le sue origini
dalla forma bombata e curvilinea della
Lira dei popoli della antica Magna Grecia,
Locri, Crotone e Sibari.
Il popolo dell’attuale Calabria (antica
Brettia ed antichissima Italia) infatti, si
alzava al mattino e intonava un canto
al suono della Lira, strumento popolare
semplicissimo, molto diffuso in tutte le
colonie greche dell’Italia meridionale.
Recandomi a Bisignano, vi trovai Vincenzo
De Bonis (oggi vivente ed insuperabile
liutaio dell’Italia intera) che mi
indirizzò da suo fratello Nicola e mi raccomandò
con quest’ultimo – più esperto nell’arte - perché mi
costruisse il tipo di chitarra desiderato. Fu così che Nicola mi
costruì, allora, due chitarre sul modello richiesto: una più ordinaria
e per le feste comuni e l’altra di legname particolarmente
pregiato perché me la tenessi da conto, essendo, quest’ultima,
una chitarra da collezione e per concerti particolari di musica
etnica.
Alla domanda se questo secondo tipo di chitarra fosse di origine
calabrese, lui mi rispose: «Di certo è che nella liuteria della
nostra famiglia viene costruita da secoli. Secondo le testimonianze
- pervenuteci da generazione in generazione - non può
essere escluso che la radice prima di questa chitarra debba
rinvenirsi proprio nella forma bombata della lira crotoniate,
che nel grande matematico e musicista Pitagora di Crotone - e
nella sua scuola Italica - ebbe il suo massimo cultore».
Pitagora, nel movimento dei pianeti e degli astri, percepiva
l’armonia dell’Universo che cercava di imitare e riprodurre
proprio con le corde della lira e della cetra.
E’ noto, infatti, dalle testimonianze delle letterature antiche,
che il popolo Italico - corrispondente all’attuale popolo calabrese
- cantava e ballava al suono della lira. E’ noto altresì che
la Tarantella calabrese - ben diversa dalla Quadriglia napoletana
e dal Salterello romano - deriva direttamente dal ballo
greco in onore del dio Dionisio, dio dell’allegria e della feconcontinua
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Chitarra bombata
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dità mediterranea che aveva la sua massima espressione nelle
danze, nei ritmi e nelle musiche delle feste falliche.
La nostra Tarantella quindi ha un significato prettamente religioso
e purificatore; è una sorta di inno alla vita, alla sacralità
dell’amore intesa come dono di Dio per la procreazione del
genere umano.
Ancora oggi - durante le vigilie delle feste dei Santi protettori
dei nostri paesi - si balla la Tarantella al suono della chitarra
battente, della zampogna e del piffero.
La ragione storica di questa usanza va ricercata dunque nel
significato vero sia della Tarantella che della chitarra battente
bombata che venivano considerati, dal
mondo antico, mezzi sacri per ottenere
la fecondità spirituale ovvero la salute
dell’anima e del corpo.
Sull’importanza spirituale della chitarra
battenti bombata per la cultura popolare
del tempo, c’è ancora da aggiungere che a
Spadola, mentre “li pecurari” utilizzavano
quale strumento tipico la zampogna ed
il piffero di radica di erica, i “vuoari”, noti
anche come “massari” proprietari terrieri,
possedevano la chitarra etnica battente.
Tutto ciò non è un caso: secondo l’antica
mitologia infatti, il toro – e quindi anche
il bue e la vacca che venivano amorevolmente
e religiosamente allevati dai “vuoari”
- è simbolo della fertilità mediterranea
nonché simbolo etnico della nostra stirpe
italica.
Persino la mucca che sta accanto a San
Luca Evangelista è nota come espressione
della fertilità spirituale.
Non ci può essere fertilità senza gestazione
materiale e spirituale, così come un
tempo non ci poteva essere “vuoaru” senza
“vuoi” e senza chitarra “battenti bombata”.
Tra la donna incinta (e/o l’animale in stato gestazionale) e la
chitarra bombata vi è infatti una sorta di relazione metaforica:
l’aumento di volume del seno della donna nel periodo gestazionale
e la forma rotondeggiante del ventre materno si traducono,
nel folklore, proprio nella forma bombata della chitarra
etnica, tipicamente impiegata o utilizzata nei canti e nei balli
propizianti della gente desiderosa della fertilità spirituale e materiale,
ed in particolar modo dai “vuoari” come auspicio per
il futuro gestazionale e la salute degli animali da loro allevati,
ritenuti un vero e proprio capitale economico, da cui dipendeva
la sorte personale e della propria famiglia.
L’assioma “vuoi - vuoaru – chitarra battenti bombata”, quindi,
non è una pura casualità ma presenta valenze e fondamenta
religiose, spirituali, filosofiche e folkloristiche ben precise.
Tra i paesi legati all’antichissima tradizione del ballo della Tarantella
a suon di chitarra battenti ricordiamo: la festa di San
Cosimo e Damiano a Riace, quella di San Paolo di Galatina in
Puglia, quella di San Rocco a Gioiosa Ionica e di Grotteria e
– nelle nostre zone - anche Serra San Bruno nel corso della vigilia
della festa della Madonna dell’Assunta e in quella di San
Bruno nella festa di Pentecoste, nonchè a Spadola in occasione
dei festeggiamenti del Santo Patrono San Nicola di Bari.
Qui, in particolare, vi era il costume di ballare la tarantella innanzi
alla statua del Patrono degli spadolesi e di portare in processione
anche una mucca, da cui deriva dunque il tradizionale
ballu di la vaccarejia di paglia, tutt’ora eseguito in occasione
della festa.
Ottime interpreti di questa tradizione erano le sorelle Catrina,
Zarafina e Rosa Valente, note come “li baruni”.
Nell’occasione veniva intonati alcuni canti di grande valenza
storico-religiosa locale di cui riportiamo,
qui di seguito, alcuni frammenti:
Vespri sonandu ed Angeli cantandu,
Madonna mia, di l’Assunta,
cu vui m’arraccumandu;
jiu non mi muovu di ‘ccà
si la grazia non mi fà;
facitimila Madonna mia,
facitimila pì carità,
ca Vui siti Virgini Spusa
di la Santissima Trinità.
Alla luce di tutto ciò, si comprende bene
quindi perché Nicola Tassone di lu cani,
certamente indirizzato dallo zio – l’arciprete
di Spadola, don Vitantonio Papa
- si recò proprio a Bisignano, nella prestigiosa
liuteria De Bonis, per acquistare
una chitarra battente bombata considerata
- assieme alla Tarantella - “sacra” e la
cui particolare forma richiama alla mente,
per le ragioni sopra esposte, lo stato
gestazionale della donna, simboleggiante
la fertilità spirituale e fisica.
Tutto ciò giustifica l’esistenza di due tipi di chitarra battente: la
bombata e la piana, la sacra e la profana.
E’ chiaro dunque anche il perché il De Bonis mi costruì due
chitarre, con materiali e fatture diversi - una pregiata in noce
per i rituali sacri o importanti (cd. chitarra catartica), l’altra,
invece, in abete per le occasioni comuni e per gli stornelli
profani – di cui ignoravo la differenza tant’è che all’inizio gli
chiesi, ingenuamente, una sola chitarra.
Nicola Tassone di lu cani invece, da buon seguace e conoscitore
della vera tradizione spadolese greco-romana, acquistò solo
la chitarra battente bombata, quella sacra, costruita secondo la
maestria De Bonis.
E cosi Nicola Tassone di lu cani - lu strinaru di Spadola per
antonomasia - ogni anno, nella notte di Capodanno, con la
sua chitarra etnica battenti bombata, dalle corde d’argento o
argentate, accompagnato dagli amici più fedeli, portava la sua
“strina” – cioè i balli e canti - per le vie dei paesi circonvicini
e in particolare ai suoi amici di Brognaturo che lo aspettavano
sul ponte di legno, posto sopra il fiume Ancinale che, da secoli,
segna il confine territoriale tra le due comunità.
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Il liutaio Vincenzo De Bonis
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Anche questa usanza trova le sue origini nella cultura latina.
Il termine Gennaio infatti deriva una radice antichissima,
“Gi”, che esprime l’idea di inizio assoluto.
A Roma, per esempio, il Dio Giano era il Dio di ogni inizio,
mentre Giove era il padre di tutti gli altri dei.
Ragion per cui, l’inizio dell’anno - primo gennaio - coincideva
proprio con la festa del Dio Giano e della Dea Strenna, dea
dell’abbondanza e del buon augurio.
Non è un caso se a Spadola, ancora oggi, vi è l’usanza di fare
nel giorno di Capodanno la distrina ai bambini, i quali con
questo gesto ricevono dei soldi in un vurzju, in segno di augurio
per un futuro prosperoso e di ricchezza.
Secondo testimonianze dai noi registrate, le serenate degli
strinari cominciavano dalla casa del signor Garcea Giuseppe
detto Peppinu di Cucciuni – anch’egli “vuoaru” - e terminava,
alla casa di Raffaele di Totò, quando suonava la campana che
annunciava la processione del bambinello Gesù per le vie del
paese, quasi a voler significare che la fertilità materiale si elevava
a fertilità spirituale.
Un ultimo aneddoto: man mano che la comitiva dello Strinaru
girava per le vie del paese, la stessa aumentava sempre di più
in quanto ad essa si univa, di volta in volta, anche il proprietario
dell’abitazione che aveva appena ricevuto la strina, il sacco
dei doni invece – frutto della distrina – diventava sempre più
pesante, mentre il tutto veniva accompagnato da un canto intonato
da “la Tazzonna”, un’anziana fedele di Brognaturo, che
recitava:
Alla chiesi di l’Annunziata, bella cosa chi ci stà;
c’esta l’Angilu, ‘ndinocchunu, chi saluta la Virginità
e dall’Ariu fu mandatu dalla
Santissima Trinità.
La Strina di Capudannu
(Canto tipico spadolese in occasione del Capodanno)
Finiu dicembri e mo trasiu jnnaru;
lu iuarnu e curtu e viatu si fa scuru;
E vena mu vi canta lu strinaru
a Spatula, Zimbariu e Brignaturu.
E vena rughi rughi e ‘ntra la via
pi ‘llu bon’annu e la befania.
Vinni a cantari a palazzu reali,
di la Spagna portai li sonaturi;
Porti e finiestri vitti alluminari
e mi para ca caffora ‘nc’è lu suli.
C’è la regina e c’è lu generali,
paranu la Madonna e lu Signuri;
Nci sta lu Patri etiernu naturali
e di l’amici ‘nc’è lu mieggiu fiuri.
Vinni pimmu vi puartu tantu beni
quantu ndi vacia a Napoli e ‘ndi veni;
Pi agurari a vui tanti bon’anni
quantu a li sipali ‘ndàmpranu li panni.
Salutu porti, finestra e li barcuni,
alla matrona e allu sue patruni.
* * *
Canto tipico di Monte Poro
Fatti li cazzi tua crapa di crita
e di li fatti mie non ti impicciari
ca si m’asssuma la faccia ti pistu
e la crianza ti fazzu ‘mparari.
Cuamu nu lepru mi farìa nu jazzu
mu tiegnu l’occhia apierti e mu mi ‘mbizzu
La genti cuomu a ttia lampàsciu a mazzu
E pue li ‘mpurnu e vaiu mu l’attizzu.
Apru la porta senza catinazzu
ca si non ai crianza jio ti la ‘mbizzu.
Ringrazio per la collaborazione il dott. Enzo Giuliano ed il
maestro Francesco Cavallaro
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E’ in corso di stampa la raccolta rilegata di tutti i numeri
de La Barcunata pubblicati nei primi dieci anni di vita
del Periodico (1995-2005).
Gli interessati possono prenotarla presso l’edicola di
Concettina Ceravolo, l’ex Salone 900 o la redazione.